Psicologia clinica in ospedale

Da anni mi dedico con particolare impegno all'assistenza psicologica clinica con pazienti affetti da malattie organiche, in particolare in oncologia pediatrica. Mi sono dedicato tra l'altro ad approfondire l'integrazione tra interventi psicofarmacologici e psicoterapia, gli aspetti psico-organici, i fenomeni traumatici ed altri temi ancora.

Nel sito trovate l'elenco delle mie pubblicazioni e approfondimenti sulle mie aree di ricerca.

IL TESTO SULLA PSICOLOGIA CLINICA IN OSPEDALE

Com'è possibile aiutare psicologicamente i pazienti con malattie fisiche durante le cure ospedaliere? 

E questo lavoro funziona davvero ed è sostenibile nel servizio sanitario pubblico? 

Questi sono alcuni tra gli interrogativi a cui cerca di rispondere il volume. Dedicato alla consulenza per la salute mentale in ospedale, offre gli strumenti per conoscere e comprendere la sofferenza che si accompagna alla malattia in un'ottica inedita e integrata,  fisiopatologica, psicopatologica, psico-logica e relazionale. L'attività di psicologia clinica in ospedale è analizzata come punto d'incrocio fra soggettività del paziente e dell'equipe, oggettività della malattia e aspetti economici e culturali delle istituzioni.

Il lettore è accompagnato lungo un itinerario che, in modo innovativo, muove dai dati storici sul complesso dialogo fra psicologia clinica e medicina, affronta questioni teoriche come l'integrazione di prospettive cliniche multidisciplinari, per trattare infine le tecniche di consultazione e supporto applicabili in ospedale, sempre alla luce di casi ed esperienze cliniche reali. Il volume è uno strumento di formazione universitaria ma rappresenta anche una preziosa occasione di approfondimento e aggiornamento per tutti i professionisti della salute (psicologi e psicoterapeuti, medici e operatori sanitari attenti alla dimensione psicologica dei pazienti affetti da malattie organiche). I proventi dei diritti d'autore saranno devoluti all'Associazione Bianca Garavaglia che opera per l'aiuto e il sostegno di iniziative nel campo dei tumori dell'età pediatrica.

Questi i riferimenti del libro: Clerici CA, Veneroni L. La psicologia clinica in ospedale. Consulenza e modelli d'intervento. Il Mulino, Bologna 2014.

INTERVISTA A MARCELLO CESA BIANCHI

Di Carlo Alfredo Clerici e Laura Veneroni, nel febbraio 2008

INTERVISTA A MARCELLO CESA BIANCHI

A cura di Lorenzo Bignamini. Ottobre 1999.

Incontro il Prof. Marcello Cesa Bianchi nel suo ufficio nell'Istituto di Psicologia dell'Università degli Studi di Milano, Facoltà di Medicina e Chirurgia. Il nuovo Istituto risente della situazione di emarginazione, siamo nella periferia est di Milano, dove la Psicologia milanese è stata relegata dalle istituzioni Universitarie. I ricordi corrono alla sede di via Francesco Sforza, a due passi dalla Statale e a quattro dal Duomo: il tempo passa ed ora Milano ha la Facoltà alla Bicocca e alla Cattolica, mentre la Specialità è rimasta qui, troppo vicino al cimitero di Lambrate e all'area chiaccherata dei Berlusconi, Milano 2: insomma siamo passati dalla civitas di S. Ambrogio alla metropoli della nuova borghesia. Incontrare il Professore è per me sempre un tuffo nella storia di questa città e della Psicologia italiana: la sua famiglia "i Cesa Bianchi"; Padre Gemelli; il "grande vecchio" della psicoanalisi, Cesare Musatti da Venezia direttore dell'Istituto di Francesco Sforza fino agli anni '70; il Papa Montini e il Cardinal Martini. Il Professore non sembra cambiato in questi ultimi vent'anni: mi riceve alla solita ora, le 7.30 del mattino, lui che da S.Ambrogio spesso veniva a piedi ai giardini della Guastalla ora è costretto all'uso dell'automobile per giungere in questo prefabbricato del Comune. In questi anni i nostri incontri si sono fatti più frequenti: con un gruppo di medici specialisti in Psicologia Clinica abbiamo deciso di prendere in mano la situazione visto che i passaggi istituzionali per il riconoscimento della nostra specializzazione erano ostici, lenti e talvolta contrastati. Così ci siamo riuniti in Società ed abbiamo iniziato un dialogo con le istituzioni e abbiamo preteso di portare avanti la nostra identità culturale e la sopravvivenza professionale. Questo percorso l'abbiamo svolto con un indispensabile interlocutore: il Professore.

-Lei ha lavorato con padre Gemelli: i ricordi che ha dell’uomo e del lavoro con lui.

-Io sono entrato nel laboratorio di Psicologia dell’Università Cattolica nel 1949, l’anno della mia laurea in medicina presso l’Università Statale di Milano, introdotto a Gemelli da Pio Redaelli che era stato mio maestro di Anatomia Patolologica. Ci sarà poi una certa successione anche dal punto di vista scientifico per quanto riguarda questo passaggio perché Redaelli mi ha iniziato allo studio del cervello senile, ed in seguito con Gemelli, essendo ormai avviato in questa ricerca, ho continuato per quarantacinque anni ad insegnare Psicologia dell’invecchiamento in questa sede.

Io stesso venivo da un coma cerebrale successivo a un incidente automobilistico, per cui qualcuno ha parlato della mia vocazione psicologica come il risultato di questo coma. Ho seguito Padre Gemelli scientificamente negli gli ultimi dieci anni della sua vita; quindi di Gemelli io conosco questi dieci anni, non conosco quelli precedenti, e posso dire che si tratta di una persona che non ha mai dimenticato la sua formazione medica che aveva conseguito all’Università di Pavia, e di tutta l’impostazione delle ricerche fatte da lui soprattutto in qualità della sua impostazione legata alle basi biologiche del comportamento e della personalità; per esempio le prime ricerche elettroencefalografiche in Italia con il Dott. Travattonni che allora era un Neurologo che lavorava presso il laboratorio di Psicologia, le ricerche sui fondamenti biologici del comportamento, costituiscono tutto un insieme di riferimenti in questo senso sostanziali.

Per quanto riguarda Gemelli posso dire che si è trattato di un maestro, nel vero senso della parola: io ero iscritto insieme ad altri due colleghi alla scuola di specializzazione di Psicologia, che era stata la prima scuola in Italia.

-In che anno siamo e dove era situata la specialità?

-Io sono entrato nel ’49 e la Specializzazione si chiamava "Specializzazione in Psicologia". Era una scuola a sé stante che era legata più alla facoltà di Lettere e Filosofia, la medicina non c’era alla Cattolica allora; quindi io ho proseguito per alcuni anni, fino al conseguimento della specializzazione in Psicologia e ho continuato a mantenere un rapporto con l’Istituto di Anatomia Patologica dell’Università. Dopo la specializzazione in Psicologia Gemelli mi ha indirizzato alla scuola di Specializzazione in Neuropsichiatria (allora erano unificate), presso l’Università di Pavia dove ho avuto come maestri: Berlucchi, Castaldi, Pinelli, Andreani, personaggi tutti che hanno lasciato un impronta nell'ambito della Neuropsichiatria di questi ultimi cinquant’anni. E poi successivamente ho avuto la possibilità di essere incaricato di costituire l’Istituto di Psicologia sperimentale del Comune di Milano, un Istituto che era stato diretto per molti anni da un Fisiologo Misselli e che poi in seguito anche alle vicende belliche era praticamente scomparso. Intorno al 1954 sono stato incaricato di ricostituire questo Istituto che si chiamava di Psicologia Sperimentale anche se la sua impostazione era soprattutto orientata verso le problematiche dei ragazzi in difficoltà, problematiche che la Psicologia considera nei riferimenti con l’educazione e con gli aspetti sociali. Il problema dell’handicap per esempio era particolarmente sentito, esisteva tutta una gamma di scuole speciali per bambini con problemi alla vista, dell’udito, del linguaggio, con problemi psichici e bambini epilettici. Ecco, questo Istituto ha ripreso una attività in questo senso, un’attività indirizzata soprattutto alla formazione minorile in collegamento con l’Università.

Io nel 1955 avevo l’incarico di riferimento di Psicologia presso la Facoltà di Medicina, incarico che fino a quell’anno era stato tenuto da Cesare Musatti, già ordinario di Psicologia presso la Facoltà di Lettere; poi qui dovettero contare i miei rapporti con padre Gemelli, più che le mie storie personali, i miei rapporti con il padre della Psicologia Universitaria che è morto poi nel 1959 sono consistiti in una collaborazione stretta dal punto di vista scientifico.

I temi di cui ci siamo occupati erano molti ma in genere principalmente: il tema della psicologia della percezione, tema sul quale esisteva allora una controversia molto affettuosa poiché i rapporti reciproci erano di grande stima fra Gemelli e Musatti, impostazioni differenti, personalistica quella di Gemelli e statistica quella di Musatti; la Psicologia dell’invecchiamento dove Gemelli mi invitava a occuparmi di un’area della Psicologia che era praticamente ignorata in Italia ma anche in altre parti del mondo e cominciava allora a diffondersi; la mia tesi di specializzazione in Psicologia ha riguardato una ricerca fatta al Pio Albergo Trivulzio (l'Istituto per anziani di Milano).

Queste sono state le basi dell’avvio della mia collaborazione con Gemelli che è stata sempre improntata a un rapporto di grande stima e grande fiducia reciproca, direi; Gemelli mi ha così considerato assieme a Leonardo Ancona che sarebbe poi diventato professore di Psicologia e poi di Psichiatria all’Università Cattolica di Roma, Gustavo Lo Iacono che sarebbe poi diventato professore di Psicologia – adesso purtroppo mancato da otto anni – all’Università di Napoli e altri colleghi, il gruppo di allievi che venivano tutti dalla Medicina e per i quali l’interesse di Gemelli era di indirizzarli verso una ricerca rigorosamente scientifica dal punto di vista sperimentale ma nel contempo verso un’apertura ai problemi della medicina, della scuola, del lavoro, cui Gemelli aveva contribuito notevolmente e della giustizia: quindi i problemi dell’applicazione della Psicologia.

Una Psicologia che Gemelli considerava come una scienza duplice, Biologico/Sociale, cioè una scienza fondata sulle strutture Biologiche del nostro organismo ma nel contempo aperta e influenzata da quelle che sono le problematiche sociali.

Gemelli è stato un maestro molto attento e molto critico, direi molto autocritico verso le posizioni di chi tendeva a usufruire della propria posizione, in questo caso cattolica, per poter ottenere dei vantaggi dal punto di vista della propria carriera; Gemelli era amico di Musatti che dal punto di vista culturale, politico e nell'impostazione di vita era esattamente il suo opposto; rispettava le persone che la pensavano diversamente da lui, e che seguivano altre strade, mentre invece assumeva posizioni estremamente critiche nei riguardi di coloro che appunto tendevano ad avere dei privilegi in funzione dell'appartenenza alla stessa posizione a cui Gemelli faceva riferimento.

Io ho un ricordo, veramente significativo di questo uomo che girava in carrozzella, perché aveva subito degli incidenti automobilistici. Questo frate in carrozzella che si dimostrava aperto a tutti i problemi attuali della società italiana, e del resto aveva già anticipatamente affrontato, essendo uno dei 2 Psicologi, insieme a Ponzo a Roma, che aveva conservato, un piccolo gruppo di Psicologia durante il ventennio fascista e che in seguito ha convogliato e fatto ripartire l'interesse per la Psicologia e che ha rappresentato veramente uno dei punti direi sostanziali, per l'avvio di una Psicologia in Italia che finalmente riprendeva i contatti sul piano Internazionale, che dava inizio ad un percorso formativo.

La scuola di formazione in Psicologia, come ho detto, è stata quella della Cattolica, poi doveva seguire dopo qualche anno quella che io insieme a Cesare Musatti abbiamo organizzato presso la Università degli Studi di Milano e che costituiva la struttura formativa per gli Psicologi d'allora

- Come si chiamava?

-Specializzazione in Psicologia con i vari indirizzi, di cui uno era l'indirizzo medico,...

-Quali erano gli altri?

- ....l'indirizzo scolastico e un indirizzo sociale,....

-In che anno siamo?

-Siamo nell'anno 1956: questa specialità rappresentava nei primi anni l'unico strumento di formazione accademico per gli Psicologi, che allora venivano in parte dalla Medicina, in parte soprattutto dalla Facoltà di Lettere e Filosofia: ecco c'era questa doppia formazione.

Gemelli come accennavo, ha sempre privilegiato la formazione medica e d'altra parte ha insistito anche su un approfondimento delle competenze in campo neuro - psichiatrico perché riteneva che lo Psicologo, che non si muova esclusivamente nel laboratorio, ma che sia portato ad affrontare i problemi dell'uomo, debba avere la conoscenza di una problematica biologica e clinica molto ampia e molto articolata.

In questo senso il suo interesse verso la Psicologia Clinica è incominciato allora nel passaggio dal laboratorio alla applicazione medica delle conoscenze psicologiche.

-Cosa si intendeva con Psicologia Clinica allora?

- La Psicologia Clinica era un'espressione non ben definita, io mi ricordo molto vagamente quando è comparsa per la prima volta appunto nel Congresso organizzato da Gemelli, nel 1952, nel quale,....

-Come si chiamava questo Convegno?

-Convegno Internazionale di Psicologia Clinica, nel quale si confrontavano, direi anche le posizioni epistemologiche, nei riguardi della Psicologia Clinica; la stessa definizione di Psicologia Clinica si prestava a delle impostazioni diverse, era comunque una disciplina nella quale confluivano Psicologi, soprattutto Psicologi di formazione medica, Psicologici psicanalisti, Neurologi e soprattutto Neurologi e Psichiatri.

Il concetto non era chiaramente definito, o meglio era definito in termini molto diversi: da un lato si diceva che la Psicologia Clinica etimologicamente è una Psicologia al letto del malato, cioè è la Psicologia che si occupa dei problemi del malato, e praticamente è la Psicopatologia: e poi si configurava anche nel senso diagnostico. Dall'altra si insisteva, e questo che in avrebbero avuto un particolare sviluppo, nel senso di intendere che la Psicologia Clinica fosse la Psicologia che utilizza il metodo Clinico, o metodo dei casi, che si contrapponeva al metodo, chiamiamolo classico della Psicologia per tanti decenni, che era il metodo sperimentale, tanto che per alcuni, per un paio di decenni, sperimentalisti e clinici si contrapponevano in modo estremamente accanito, con tutta una serie di accuse reciproche di non semplicità, in un' illusionismo di distacco degli elementi della realtà, che poi si sarebbero stemperati, nel momento in cui si incominciavano ad avere degli Psicologici che lavoravano nelle cliniche universitarie e nei servizi ospedalieri.

Gli sperimentalisti, ritenevano che soltanto il metodo sperimentale, poteva verificare le ipotesi in modo regolarmente scientifico, in riferimento a quella che era la scientificità, delle scienze biologiche e naturalistiche; i clinici, i quali ritenevano, soprattutto quelli di formazione dinamica psicanalitica che oggetto di studio della Psicologia Clinica fosse tale da non consentire, se non attraverso una snaturamento dell'oggetto stesso e di essere sottoposto ad un'impostazione così piuttosto elementare, così artificiale, essendo svolto in laboratorio, come la Psicologia Sperimentale esigeva.

Come dico, anni di polemiche che poi si stavano filtrando e risolvendo, quando alcuni Clinici, tanto italiani, tanto a livello anglosassone si resero conto dell'opportunità di verificare e quantificare le proprie conclusioni, cioè l'ipotesi, che le conclusioni dovevano essere altamente verificate, prima di essere considerate delle teorie convalidate.

E d'altra parte, la quantificazione e la verifica erano due punti critici per chi studiava la Psicologia Clinica e inizialmente, d'altra parte, gli Psicologi sperimentalisti si rendevano conto che alcune delle ipotesi derivate dal rapporto clinico fra lo psicologo, lo psicologo clinico e il paziente, potevano veramente prospettare delle linee innovative, all'interno di quello che la Psicologia Sperimentale avrebbe potuto meritarsi: cioè determinare così una specie di interdipendenza o complementarietà fra l'impostazione sperimentale e l'impostazione clinica, in fondo riportando quello che già in medicina da molti anni si realizzava, anche se in medicina la sperimentazione allora era quasi esclusivamente sugli animali e non c'era una sperimentazione sull'uomo, mentre la clinica evidentemente deriva dall'uomo.

E' interessante, dal punto di vista storico, considerare quali siano stati i fattori che hanno portato alla nascita di una Psicologia Clinica, o ancora meglio ad una accettazione all'interno della Psicologia accademica.

Si può dire che la Psicologia per alcuni decenni, all'inizio della sua storia scientifica, che viene collocata nel 1878, con l'istituzione a Lipsia del primo Laboratorio di Psicologia Sperimentale, quello di Wund, era stata una Scienza che studiava dei fenomeni elementari, dei segmenti di comportamento, aveva un'impostazione essenzialmente elementaristica e studiava i processi, non studiava l'uomo; studiava le legge della percezione, della memoria, dell'emotività, ma non studiava l'uomo in quanto tale; utilizzava l'uomo solo come fonte d'informazione per definire le leggi che riguardavano i processi, era cioè, centrato, orientato sui processi, non sull'individuo.

L'evoluzione della Psicologia che non ha mai dimenticato, naturalmente l'importanza dello studio sui processi, verso lo studio dell'uomo, è venuto dal mio modo di vedere, per una serie di fattori che in parte sono intrinseci, e in parte sono legati invece a condizioni esterne a quella che era allora la Psicologia accademica. Fattori intriseci sono quelli della Psicologia che si rendeva sempre più conto che il considerare l'uomo soltanto come fonte d'informazione, finiva col portare a delle conclusioni molte volte discutibili, proprio perché la distribuzione dei risultati, di fronte a una stimolazione sperimentale, che si poteva avere, e non poteva essere semplicemente attribuita al fatto che determinati individui presentavano delle caratteristiche anomale, rispetto a quelle che dovevano essere la media della popolazione in quanto tale.

Gli esperimenti che si facevano, potevano riguardare anche pochi soggetti, e quando invece hanno cominciato ad allargarsi, ci si è resi conto che l'equazione personale, tra i fattori personali, influiva in modo determinante sul risultato stesso e quindi non si poteva considerare anche la funzione del processo prescindendo dal fatto che questo processo si realizzava in individui, ciascuno dei quali rappresentava una caratteristica irripetibile all'interno della situazione. Quindi una attenzione sempre maggiore all'uomo non solo come fonte d'informazioni, ma come il prodotto di influenze esterne ed interne. Questo approccio ha facilitato l'avvio verso la Psicologia Clinica. Altri fattori fondamentali sono prima di tutto l'influenza della clinica medica: direi che la medicina, da questo punto di vista, ha prospettato alla Psicologia la necessità di affrontare i problemi dell'uomo e non soltanto quello dei processi: ciò ha dimostrato come il problema dell'uomo si pone come una necessità, anche da un punto di vista critico e sociale, per poter risolvere determinate situazioni che si vengono a determinare e prospettare.

La Psicologia Clinica ha indicato poi come il metodo clinico possa costituire un elemento di grandissima portata, per poter arrivare a conclusioni anche di carattere generale sui processi, e d'altra parte, come l'uomo costituisce un riferimento irripetibile di quella che è la situazione alla quale la Psicologia e la Medicina potevano derivare; la Medicina ha per così dire influenzato la Psicologia, portandola da uno studio dei processi a uno studio dell'uomo e ha guidato uno sviluppo della Psicologia verso l'impostazione cosiddetta personalistica e verso l'affermazione del concetto di personalità, come individualità psico-sociale, sia pure espressa inizialmente, partendo da teorie molto diversificate tra di loro e che troveranno in Europa, e anche in Gemelli in particolare, un sostenitore particolarmente significativo.

Ci si rende conto che la distanza, la si raggiunge quando finisce la legge della perfezione, come legge di organizzazione percettiva a livello cerebrale. Ma la Psicologia ha ragione soltanto in parte quando si dimentica di colui che percepisce, e del fatto che colui che percepisce può influenzare il risultato della percezione stessa. La Psicologia si orienta verso l'affermazione appunto di una linea, direi personalistica, prima di riconoscere l'importanza dell'organismo come ricettore di stimoli ed elaboratore di sforzi, e poi inserisce questo concetto di organismo nella personalità e riconosce la dimensione biologica, psicologica e sociale date da influenze che l'uomo subisce all'interno della situazione concreta nella quale si colloca.

È la medicina che in quegli anni '50 al '70 offre o stimola la Psicologia a muoversi verso lo studio dell'uomo: negli anni invece più recenti è la Psicologia che tende a richiamare la medicina, sempre più super-specializzata, a ricordarsi che lo studio di qualunque parte, di qualunque settore, deve ricondurre al fatto che le parti appartengono a un corpo che appartiene a una persona. E' la Psicologia che oggi in fondo richiama la medicina, così necessariamente parcellaristica, per questa visione estrema allo sviluppo scientifico, a ricordarsi il problema dell'uomo malato, ma anche dell'uomo medico, dell'interazione fra uomini malati.

C'è stato invece uno scambio dal punto di vista dell'evoluzione dove la Psicologia è partita da un esame elementaristico, per arrivare a uno studio della personalità e della persona umana, la medicina è partita dallo studio dell'uomo, il medico tradizionale, per arrivare a specializzarsi in una maniera sempre più settoriale, rischiando, come diciamo oggi, di dimenticare l'uomo.

In questo senso, per altro, a parte questa determinante della medicina, altre influenze vengono da parte dell'ambiente sociale, dal mondo del lavoro, della scuola, in cui si chiede alla Psicologia e poi alla stessa medicina, di aiutare i tecnici dei vari settori ad affrontare i problemi connessi a quello che è stato chiamato il fattore umano, nel lavoro, nella scuola, nella Medicina; cioè ci si rende conto inizialmente del lavoro che le tecnologie più avanzate e il perfezionismo della funzione tecnologica, non riescono ad ottenere dal punto di vista della produttività dei risultati che ci si aspettava, proprio perché al centro, o com'è il riferimento irrinunciabile nelle condizioni della Psicologia, cioè l'uomo con le sue caratteristiche personali, con i suoi fattori consapevoli e inconsapevoli, con le influenze che riceve, che si usano nella sua storia, la sua interazione, con la macchina, l'ambiente di lavoro, l'ambiente educativo e anche per quanto riguarda l'organizzazione sanitaria.

Ci si rende cioè conto che la Psicologia, e la società spingono in questo senso a dare una risposta a certi problemi, nel lavoro, nella medicina, nella scuola, nella giustizia: la psicologia deve dare cioè l'indicazione circa il funzionamento di quel particolare uomo, non semplicemente nel processo percettivo che lo caratterizza, ma nel comprendere il significato della persona in quanto tale, ecco da allora direi che nasce l'era della Psicologia Clinica....".

- Mi sembra di capire che questo percorso richieda una complessità

oggi molto impegnativa da sostenere: il suo discorso valorizza il ruolo mediatore della psicologia clinica tra medicina e psicologia. Anzi mi sembra che per lei Psicologia Clinica sia una specie di equivalente di uomo.

-Anche se appunto questo concetto di Psicologia Clinica si prospettava come esclusivamente riservato all'ambito medico, veniva anche riferito alla possibilità di utilizzare determinati strumenti diversi da quelli della sperimentazione per approfondire la conoscenza dell'uomo, anche dell'uomo sano, quindi l'invito al Clinico, non riguarda soltanto il malato. Ecco il Crinex a cui ci si riferiva al letto del malato, ma riguarda un'impostazione che tende a considerare la complessità di fattori che intervengo nel funzionamento dell'uomo, e la complessità dei fattori che intervengono nell'iterazione, per esempio fra medico e paziente, o fra psicologo e paziente, fra individuo e il gruppo di appartenenza.

Il problema della comunicazione della relazione in medicina che oggi si pone in modo determinante, è espressione di una evoluzione che è partita dagli anni '50, in cui la Psicologia Clinica ha cominciato ad affermarsi in modo quasi integrativo, almeno anche in Italia, naturalmente, importante è stata l'influenza della Psicologia del Profondo, quella della Psicanalisi in particolare, che ha contribuito a superare due limiti della Psicologia, che precedentemente ricordavamo. Uno quello di considerare l'attività psichica puramente cosciente, cioè quella di non considerare quelli che sono gli aspetti non consapevoli del nostro comportamento e della nostra persona, che la Psicanalisi in particolare evidenzia.

L'altra è quella di arrivare a considerare che la distinzione fra uomo sano e uomo malato, non è una distinzione qualitativa, anche dal punto di vista sanitario, ma è una distinzione quantitativa tanto che lo studio del malato può consentirci di cogliere come ipertrofizzato, e come attraverso la gigantografia delle immagini rispetto ad un funzionamento che troviamo anche nell'uomo sano; quindi questa separazione della tradizione nosografica psichiatrica di tipo organicista delle varie categorie dei malati suddivisi rigidamente uno dall'altro e del sano che invece si colloca in una categoria totalmente seperata: l'uomo malato e l'uomo sano come totalmente distanti l'uno dall'altro. Il concetto di schizofrenia tanto per dirne una, si dimostrava estremamente limitato, importante ma soltanto indicativo, di fronte alla situazione che si pone nella realtà del singolo uomo: l' etichetta data sulla base di una certa patologia, direi, rischia di essere fuorviante, quando ci porta a considerare che quest'uomo classificato come schizofrenico, è identico ad un altro uomo che è nella stessa categoria.

Quando poi ci si rende conto che le situazioni, fatte nella complessità del concetto di schizofrenia e magari attraverso divisioni che all'interno di questo concetto ci portano nella situazione che si può presentare l'individuo assolutamente diverso, c'è la tendenza, questo è interessante, a classificare un individuo anche per dire handicappato, in funzione di ciò che manca, che è deficitario e per cui si dice i ciechi, i sordi, e non in funzione delle caratteristiche positive; ciò porta ad un certo punto a considerare questo che solitamente è determinante, per esempio tutti i ciechi come persone che sono uguali fra loro, devono fare tutti i telefonisti, perché tutti i ciechi devono fare i telefonisti, ecco, ignorando che uno è colto e l'altro no, uno è intelligente e l'altro meno, che uno ha una certa mobilità e uno un'altra.

In un certo senso la Psicologia Clinica nel suo avvio , in certi momenti non direi confuso ma certamente molto articolato, ha portato, aD individualizzare il problema dell'approfondimento dell'uomo sano e dell'uomo malato e ha superato certe tipologie categoriali che rischiavano sotto un’apparente chiarezza di creare degli stereotipi, di fronte a una situazione in cui poco si propone.

-Va bene Professore: senta come si è arrivati nel 1989, ad istituire le scuole di specializzazione; quale è stato l'iter normativo?

- Dunque l'iter che si è venuto realizzando, dev'essere collocato in una serie di prospettive, in parte nazionali ed in parte internazionali. In parte nazionali perché in Psicologia, la Psicologia che appunto inizialmente negli anni '50 rientrava a livello formativo soltanto nella scuola di specializzazione, la prima quella della Cattolica, la seconda quella di Milano, poi quando arrivano anche le altre città italiane fino a che ad un certo punto si istituirono i Corsi di Laurea in Psicologia.

I Corsi di Laurea in Psicologia che poi si sarebbero trasformati in Facoltà di Psicologia, consideravano naturalmente la necessità anche dal punto di vista formativo che la specializzazione clinica non potesse crescere nella formazione primaria dello Psicologo, ma dovesse essere veramente una specializzazione direi in senso medico, cioè dovesse comportare una separazione di base dal corso di laurea; quindi si è prospettato la necessità che le specializzazioni assumessero veramente una caratterizzazione molto precisa di formazione post-laurea, di persone che avessero già acquisito una competenza dal punto di vista culturale e anche dal punto di vista formativo nella psicologia e nella medicina perché, ecco per quanto riguarda la specializzazione di Psicologia Clinica è sorta come espressione di questa evoluzione nazionale. C'è anche un altro aspetto che dev'essere considerato sul piano internazionale, come appunto la necessità di considerare che una specializzazione medica, accanto a quelle di carattere sociale e quelle di carattere educativo, oltre poi ad una specializzazione che riguardava la prosecuzione, diciamo accademica, cioè la specializzazione nell'ambito della ricerca.

La specializzazione clinica ci ha costretti a considerare la Psicologia Clinica come collegata alla medicina, storicamente e culturalmente e dall'altro naturalmente prospettando una nuova Psicologia che si apriva anche per gli altri problemi aprendo la scuola di specializzazione di Psicologia Clinica, ai medici e agli psicologi.

-Mi scusi non ho capito il punto precedente: lei ha detto che ci sono scuole di specialità in Psicologia che erano solo ed esclusivamente per psicologi…

- Sono 4 le specializzazioni: tre aperte solo ai laureati in psicologia, mentre quella Clinica è aperta anche ai medici ed è interessante vedere come le prime 10 scuole di Specializzazione di Psicologia Clinica che si sono aperte in Italia, sono state avviate dalla facoltà di medicina, prima fra tutte ancora una volta quella di Milano, che trasformava la preesistente scuola di specializzazione in Psicologia a vari indirizzi, fra cui l'indirizzo medico, riservato ai laureati in medicina. La situazione è cambiata nel momento in cui vi fu la necessità di adeguarsi alla normativa Europea e si poneva il livello di specializzazione diciamo nell'area sanitaria.

La necessità è stata di rispettare certe normative dal punto di vista della formazione, e che queste normative consentissero la possibilità per uno specializzato in Italia di operare a livello di tutti i Paesi della Comunità e viceversa. Ecco quindi in questo senso l'organizzazione delle scuole di specialità così come attualmente appare è stato il risultato di un evoluzione nazionale, perché la Psicologia in Italia era stata notevolmente ritardata nella sua evoluzione, nella funzione soprattutto del break-out del ventennio fascista, e quindi le ripresa è stata lenta e faticosa, così come abbiamo detto, rispetto a quella di altri Paesi.

Anche se, questo è un aspetto storicamente interessante, lei sa che pochi giorni fa è comparso sulla Gazzetta Ufficiale l'inserimento della scuola di specializzazione di Psicologia Clinica, insieme ad altre 2, a Biologia e Patologia, fra le scuole di interesse del Servizio Sanitario Nazionale.

Per alcuni anni dopo l'istituzione della scuola di specializzazione in Psicologia Clinica, ci si è preoccupati di riconoscere che la scuola potesse avere una approvazione dell'Unione Europea, della CEE allora com'era, questo perché, questa approvazione avrebbe consentito già dall'inizio di avere delle borse di studio da parte del Ministero della Sanità, borse che si potevano avere in due vie: la seconda si è aperta dopo la prima. La prima strada era quella di essere riconosciuti in altri due Paesi della CEE, come corrispondente, l'altra quella di essere di interesse, come è avvenuto in questo caso, dal Servizio Sanitario Nazionale.

Per quanto riguarda la prima soluzione noi ci siamo trovati di fronte ad una difficoltà insormontabile, perché la normativa a livello di scuola di specializzazione negli altri Paesi, tranne l'Austria che si avvicinava alla nostra, era tale da consentire il parallelismo fra la nostra scuola di specializzazione e quella di altri Paesi, proprio perché la formazione di base degli Psicologi e il modo in cui i medici arrivavano alle scuole di specializzazione, era molto diversa rispetto da quella Italiana, quindi si è creata questa situazione di empasse, cioè legata all'impossibilità che la scuola potesse avere questo riconoscimento dal punto di vista della CEE.

Questo è la dimostrazione che la situazione italiana rispetto a quella degli altri Paesi, poteva impedire di raggiungere immediatamente dall'origine formale quel parallelismo che invece si è creato con altre scuole di specialità.

- Il problema attuale della Psicologia Clinica in Italia sembra essere quello degli sbocchi professionali: lei sa che la nostra società, fin dalla sua nascita nel 1997 ha perseguito l'obiettivo dell'equipollenza alla Psichiatria per i medici; alla fine si è ottenuta l'affinità a termine fino alla fine dell'anno nonostante che con l'introduzione delle borse di studio per i soli medici questi ultimi si diplomeranno in un numero di circa 20 all'anno. Attualmente poi si sta discutendo in CSS la proposta dell'Ordine degli Psicologi sulle tipologie delle Unità Operative di Psicologia e Psicoterapia che in realtà si vanno a sovrapporre circa le tipologie funzionali; questo significherà che le Unità Operative di Psicoterapia saranno l'unico sbocco per i medici, sbocco virtuale in quanto le funzioni psicoterapeutiche se le terranno le Unità Operative di Psicologia, Psichiatria e Neuropsichiatria Infantile. La nostra proposta iniziale era quella di attivare Unità Operative di Psicologia Clinica e Psicoterapia aperte sia a psicologi che a medici, proposta che il Prof. Tansella e Prof. Rubini hanno affossato in CSS. Lei pensa che questa proposta sia possibile e ha delle ragioni anche operative per il futuro.

-Il problema è certamente molto delicato e credo sia stato più complicato da certi atteggiamenti, per me ingiustificati che l'ordine degli Psicologi ha assunto nei riguardi del problema della scuola di specializzazione in Psicologia Clinica, pretendendo di riaffermare che soltanto la Psicologia possa arrivare alla formazione, e creando così una serie di ostacoli che poco per volta si sono realizzati.

La situazione di un conflitto fra l'Ordine degli Psicologi e l'Ordine dei medici rischierebbe veramente di creare una situazione che finirebbe per ripercuotersi negativamente anche su queste possibilità concrete di soluzione. Certe prese di posizione configurano nel senso corporativo certe azioni che possono essere giustificate nei fini di questa posizione ma che non tengono conto della situazione che noi abbiamo cercato di riassumere in questa intervista. Ora il problema è quello di considerare che i medici rivendicano certi aspetti che sono peculiari della facoltà di medicina ma non possono rivendicare la totalità della Psicologia Clinica; gli Psicologi a loro volta possono rivendicare una serie di apporti che la Psicologia dà, ma non possono escludere che ci sia una sorta di competenza dal punto di vista medico specifico: quando, appunto, si parla di certi aspetti diagnostici o dell’uso dei farmaci soprattutto.

Quindi il problema prospettatosi di trovare due figure in un certo senso di Psicologo può rappresentare una soluzione forse all’impossibilità di trovare un' accordo, ma culturalmente sarebbe una sconfitta ad un modo di vedere perché si giungerebbe ad una separazione con un mondo di ricercare una integrazione.

A me sembra che, appunto, che certe soluzioni potrebbero essere anche delle soluzioni obbligate, ma veramente rischierebbero di creare una specie di accanimento terapeutico reciproco tra i medici e gli psicologi indirizzati verso l’evoluzione della disciplina e della possibilità della sua comprensione anche da parte del pubblico e della cultura e ciò rischierebbe di essere controproducente. A mio modo di vedere è più importante trovare delle soluzioni che, come dico, rispettino quello che c’è da rispettare ma allo stesso tempo accettino quello che è il concetto di un’integrazione che per me è veramente fondamentale.